martedì 18 settembre 2012


Intervista al poeta Eugenio De Signoribus

“La poesia è inerme, la lingua dei versi è cambiamento”

di Grazia Calanna

“Ora percorriamo malfermi / un solco tra ingiurie e promesse // un ossessivo ciarlume / occupa ponti indifesi // batte sui timpani offesi / come colpi di frusta // così barcollanti cerchiamo / le tracce, le nostre, le stesse”. Parole terse, taglienti, fotografe di un mondo pericolante che abbisogna benevolenza, “se ci fosse davvero / la grazia d’un rinascerci // in uno scarto del tempo / nel sonno della polveriera // popoli di lacerati / sorgerebbero da ogni confino”. Versi di Eugenio De Signoribus, vincitore, sezione poesia, del XLIII  Premio Letterario Brancati Zafferana, con “Trinità dell’esodo”, edizioni Garzanti. L’autore propone un percorso articolato includente testi scritti dal 2005 al 2010. Riprende i nodi tematici principali, enunciati dal 1989 nei precedenti libri, in particolare: “Istmi e chiuse” (1996), “Principio del giorno” (2000) e “Ronda dei conversi” (2005). Un trittico densissimo nel quale risalta l’armonioso contrasto tra la ferocia del mondo reale, “Lo svelamento del male cancella via ogni certezza”, l’illusoria speranza, “Ma il dolore resta sopra ogni cosa”, e “la trama infinitesimale” di un immaginario lucente, “finché non sia reperito il verbo nel vero inizio / e introvato il muro del pianto”.

Del suo trittico - Evo paterno, Cruna filiale, Rua dello spirito – qual è, volendo indicare una possibile rotta, l’assunto cardine?

“Le tre sezioni sono strettamente connesse: la prima, indica il tempo in atto e accenna agli errori e orrori che hanno portato l’umanità a questa strozzatura epocale; la seconda, vorrebbe essere il racconto di un’utopia, o meglio la visione di un nuovo inizio; la terza, è la voce interiore di una via possibile per continuare a stare al mondo. In questa, si potrebbe individuare una direzione, un progressivo disarmo del proprio io come frutto di un ascolto radicale della propria coscienza”.

“È l’era melmosa / della memoria // è l’era della ressa / impietosa // è l’era del sangue / fino agli occhi… // che non mi tocchi / il suo sguardo bianco! // la sua orribile mano / non mi tocchi!”, con la sua “È l’era melmosa” per chiederle se (in che modo) l’esodo può divenire cammino di redenzione.

“Da come il mondo è stato indirizzato, l’esodo, inteso qui come rivoluzione interiore e mai come fuga, potrebbe riguardare molti individui, potrebbe cioè tracciare un diverso cammino, se non una redenzione. Naturalmente, è più probabile che ripercorra la propria vita chi è toccato dal senso di colpa… ma anche chi ha il dono di un sentire profondo e onesto non può che dibattere in sé, cercare un’uscita differente, praticare il bene comune. Di questi nuovi o rinnovati umani ha estremo bisogno il mondo: dal luogo domestico al più vasto”.

“Forse non ti riconosco, voce / che parli da un indistinto volto // voce che cerco di guardare / alzando gli occhi sugli occhi  // voce che cerco di ascoltare / nel battere del suono”, la poesia può (in che modo) giovare al recupero della nostra (essenziale) capacità d’ascolto? 

“L’esperienza della poesia è, almeno per me, esperienza d’ascolto. Del grande fuori e di sé: di come  il travaglio del vivere altrui entri nel mio… e come il mio s’investa in quello. E come questa assunzione del drammatico vero possa tradursi in lingua poetica, cioè in testimonianza. Questa può essere più forte e credibile solo se la voce che la dice si è purificata, è prima di tutto attendibile a se stessa”.

È  possibile penetrare il vissuto per riconsegnarlo, inermi, in forma poetica?

“La poesia esprime, di fatto, una condizione di inermità: l’unico combattimento è con la lingua poetica, che deve essere pensata, attesa e inventata, per superare l’epoca, per resistere”.

Per Salvatore Quasimodo “la poesia è la rivelazione di un sentimento che il poeta crede personale e che il lettore riconosce come proprio”, qual è la sua più intima definizione?

“Concordo con Quasimodo. La poesia  ha bisogno di corrispondenza. Ha bisogno di interlocutori. Magari uno, o una sua proiezione, eticamente forte, il cui riconoscimento puntella, fa vivere, la sempre più indistinta presenza del poeta nel caos agonistico di questo evo”.

Qual è il ricordo più caro legato alla sua primissima poesia?

“Non ho un ricordo dei primi versi. Ho solo il ricordo di un grande tempo, insieme d’attesa e di nostalgia: attesa di comprendere  lo sterminato fuori e l’acuta nostalgia di quanto avevo già perduto e che avrei perduto, sopravvivendo”.

Quali i poeti dell’anima e, a grandi linee, sin dalla giovinezza, le letture vitali?

“Dovrei fare tanti nomi. Non appartengo alla categoria di chi esclude ma di chi rispetta l’altro, anche per un solo verso”.

Scelga una sua poesia per salutare i lettori.

“Trinità dell’esodo è un libro per sequenze. Mi è difficile estrarne un testo. Volentieri però mi provo a suggerire quello di pag. 118, “forse non ti riconosco, voce, / perché in te non rinasco // ma mi dibatto e commuovo / per il balbettìo dei tuoi occhi // per l’intermittente lumìo / d’un disperato segnale // come da un corpo separato / ma vivo ancora… // e ti ascolto e ti ascolto / e verso te m’attiro // come una vocale / dentro una parola”. Esprime il mio stato di soglia, tra dubbio e desiderio di affidamento, tra pudore e accoglienza, che riguardano non solo la voce interiore ma la mia stessa poesia”.

GRAZIA CALANNA

 

 

 

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